domenica 6 gennaio 2013

Ritorno a casa


Le cose mi mancano prima ancora che ne abbiano il diritto. So già che le lascerò, tutte, con meticolosi gesti di abitudine forzata, taglienti. Provo a tenermi ogni cosa incastrata dentro, vivo per sensazioni ma soprattutto per immagini, l'ho sempre fatto. Ora forse capisco il perché della mia memoria fotografica, e penso che agli esami le sapevo, le risposte, perché mi ricordavo la piega di una pagina o una macchia di inchiostro blu.
Le cose che vedo restano impigliate ai miei occhi. Ed è lì che mi mancano.
È per questo che sorrido quando scendo dal bus e le mie scarpe toccano una terra che non è la mia, è per questo che respiro come fosse la prima ed ultima volta quel preciso istante in cui si mischiano nuvole, tegole sporche, stoviglie sbattute nei lavandini, sardine arrosto, gabbiani sui ciottoli della piazza e fontane vecchie, bambini che corrono e lustrascarpe che voltano le spalle alla strada. Non me ne importa proprio niente che questa non è la mia, di terra. Rinnegatemi, alzate le spalle oppure sorridete con condiscendenza.
Perché mi mancherà anche lei. Perché in ogni mio gesto le sento tutte, le cose che mancano. Perché ogni tazza bollente è la mia tazza “della stabilità”, quella che compro ogni volta che vado a vivere da qualche parte e che poi lascio lì. Perché quando piove il rumore che sento è quello dell'acqua che scivola sulla finestra minuscola in rue d'Isly, e il profumo della colazione sa di quello sciroppo appiccicoso che esiste solo in un posto. Perché l'ombrello lo dimentico sempre a casa, ché tanto un portico che mi ripara lo trovo, o forse no. E perché non riuscirò mai a ricordarmi come si deve una data, un numero, un cognome, ma ricordo alla perfezione tutti i mercati di una città enorme e lontanissima dal mare. E la prima volta che vedo un posto dall'alto, l'ultimo tramonto dell'estate e i granelli di sabbia caldi il giorno prima di prendere un altro aereo, le città che si svegliano sotto i miei occhi stanchi, il panorama grigio dalle mie finestre in inverno, ogni risveglio in ogni letto.
Le cose mi mancano, le guardo mentre le mie gambe ricominciano a muoversi, mentre i miei passi si allontanano. Eppure le ritrovo, le rivivo. Niente è lontano, mai.  

domenica 23 settembre 2012

L.


Chiedimi dei pomeriggi in cui la pioggia sta ancora scivolando sulle piastrelle turchesi che ricoprono le pareti di casa mia, la domenica. Potresti anche chiedermi di quella volta in cui mi sono messa a ridere da sola, appena mi sono affacciata su quella terrazza da cui vedevo palme e cielo e cupole bianche. O magari delle porte lasciate aperte la mattina, e se entri c'è qualcuno che ha deciso che oggi insegna a ballare perché non sa che fare. Probabilmente non saprei che dire, inizierei a fare una smorfia che in fondo è un sorriso trattenuto, alzerei le spalle. Ma vuoi davvero che te la descriva, questa cosa?
A volte voglio stare da sola con lei. Nient'altro. Andiamo a fare un giro, mi dicono.
Un giro.
L'unica cosa che voglio è entrarci dentro ed invischiarmi così tanto in questo posto da non volerne uscire più. Sono drogata, sono fissata, è come quando incontri qualcuno che preferiresti evitare di rivedere, ché poi lo sai come potrebbe andare a finire.
Chiudo le persiane
spengo il telefono, non rispondo
smetti di entrarmi dentro, lasciami dormire oggi.

mercoledì 29 agosto 2012

Incubo di fine estate



Devo farmi un paio di occhiali nuovi. Montatura nera, leggermente squadrata, non tanto grandi da farmi sembrare una nerd, né così piccoli da darmi un'aria da professoressa di matematica che oscilla tra una malcelata frustrazione e un non troppo sottile accenno di pornografia da videonoleggio. Un paio di occhiali che simboleggi la svolta, il cambiamento, il passaggio alla vita da persona seria, quello che tutti, da almeno qualche anno, aspettano con ansia che io faccia. Togliere qualche orecchino ed alleggerire il trucco e, sì, comprare qualche camicia, a maniche lunghe ovviamente, così quell'orribile patacca non si vede, che io te lo dicevo che poi a lavorare negli uffici mica ti vogliono. E poi una casa, una casa vera, perché è ora di smetterla con i materassi sul pavimento e le stanze senza armadio, che tanto a che mi serve che fra poco me ne vado, basta con le finte permanenze, basta con questa storia di lasciare la valigia aperta accanto al letto, con i vestiti più pesanti ancora sul fondo, basta con le liste di posti strani da vedere. Qualcuno mi ha detto che adesso dovrei iniziare a viaggiare in coppia. In coppia. Come se non fosse sufficiente portarmi dietro la metà paranoica di me stessa, quella che davanti a ogni scorcio, prima del click e dello scatto del rullino mi sussurra, sempre, puntualmente, anche quest'esperienza è agli sgoccioli, sorellina. E tu sei così indietro sulla tabella di marcia. Bene, dovrò rallentare, vedrò tutto attraverso le mie lenti spesse, berrò caffè ristretto in un tempo record di otto secondi, ché passeggiare con un bicchierone pieno di brodaglia allungata con acqua tiepida è sconveniente, è rilassato. Mi farò inghiottire dai ritmi di una grigia respirazione frenetica, mangerò da sterili scatolette di plastica, lavorerò sulla tonicità dei muscoli delle mie cosce, sulle mie unghie ci sarà solo smalto trasparente.
E la sera mi toglierò le scarpe, lascerò lì quei dieci, fasulli centimetri, calpesterò il parquet dell'ingresso, mi guarderò allo specchio, e spoglierò il mio uomo iniziando dalla cravatta.
Buonanotte, tesoro.

lunedì 2 luglio 2012

Impressioni vaghe senza rilettura


Repliche di una partita che non vorremmo rivedere, cronache in castigliano stretto e neanche troppo fine, mani screpolate dal sapone a buon mercato, voci stridule di ragazze dalla cellulite che parla, americano ovviamente, una lingua composta per il novantotto percento da risate sguaiate. Festeggiare per ciò che non si dovrebbe né si vorrebbe e ridere sotto i getti d'acqua di una fontana invasa da tifosi invasati, fiori fucsia nella piazza dove meno ci si aspettava di trovare la movida (quella che noi l'avremmo fatta dieci volte meglio), cognomi inventati, o meglio, tradotti alla lettera per cambiare temporaneamente identità. Croissant ripieni di prosciutto che è meglio del prosciutto, e di formaggio così così, e quel sapore burroso che non ti aspettavi di ritrovare qui, salutandolo in modo quasi nostalgico leccandosi le dita per strada, dopo. Conoscenze lampo, c'è chi arriva e ti parla in inglese con un accento anche troppo conosciuto, che lo sgami subito, c'è chi dorme in una camerata mista senza vestiti addosso, c'è chi ti sorride mentre attacca un poster sotto il sole delle due del pomeriggio e ti dice che sì, c'è un festival, e sì, inizia proprio stasera. Fare un check-out è molto più facile del previsto, e anche rivedere le proprie priorità, oppure realizzare quanto sia bello ciò che a priori avremmo escluso. Ci sono mercati grandi interi quartieri, ci sono torte al tonno buone come non mai e bicchieri di birra minuscoli. C'è un posto bellissimo in cui si possono fotografare tutti i colori insieme, tutti.

giovedì 7 giugno 2012

(S)radicamento.


Tornare. Il ritorno, i biglietti che hanno come destinazione un luogo in cui restare, quel senso di sicurezza di cui ci si riempie quando il suolo che si calpesterà una volta arrivati lo si conosce da sempre. Schiacciante senso di appartenenza, imprescindibile legame.
Dovrei cercarlo, imporlo alla mia anima insaziabile (instabile). Incatenarmi al suolo, all'origine, alla terra, quella terra che graffia le piante dei piedi, che si incolla alle tempie, così intensa, così piena. Così vuota, a volte.
Oggi voglio davvero riuscirci. Mi tolgo le scarpe già piene di sabbia, faccio pochi passi fino alla riva del mare gelido, l'aria umida di una primavera che ancora non c'è mi increspa i capelli, mi abbasso fino a sfiorare con la punta delle dita quei minuscoli granelli sommersi. È un luogo che gronda silenzio, questo, e ci resto per un tempo indefinito. Cerco di riempirmi di tutto quello che vedo, di saziarmi, i miei respiri sono ansiosi come quelli di chi si aggrappa alla vita, affondo le mani nella sabbia e stringo, stringo fino a graffiarmi. C'è una conchiglia bianca, minuscola, che mi ferisce il palmo, ma io continuo a stringere, perché è la mia casa, perché sono le mie radici, perché...
No. Non posso.
Deve essere per forza una, la casa?
Cerco, in mezzo al niente che mi circonda, una risposta. Ma poi penso alla mia valigia, piccola e ammaccata, che è stata ovunque. Penso alle partenze, ai biglietti di sola andata, i più belli. Sono quelli, per me, la casa. È quando appoggio un piede su un suolo completamente sconosciuto, che per un po' mi apparterrà, o che forse finirò per odiare. È quando entro in un bar e mangio cose mai viste per colazione, e mi sembra di averlo fatto sempre. Quando esco la mattina e parlo per tutto il giorno una lingua che non è quella con cui ho imparato a parlare, ma che è mia in un modo ancora più intenso. È casa, quando mi sveglio in una stanza nuova, con le pareti ancora spoglie. Quando cammino per la prima volta in una città, senza mappe, senza meta.
Io, un pezzo della mia casa, lo lascio in ogni luogo da cui parto. Il ritorno, poi, è un'altra storia.

mercoledì 16 maggio 2012

Inversione_01


Cambio improvvisamente la mia direzione, dopo anni di scrupoloso cammino in linea retta. Vivo in una città in scala di grigi, fatta di spigoli e di troppi vuoti da riempire. Insignificante esistenza divisa fra anonimi muri portanti, cielo inesistente, orizzonti monocromatici da cui non spunta mai il sole. Lo dipinsi sulla mia finestra, una volta: un cerchio arancione ormai sbiadito, intenso contrasto di sfumature per riempire i miei occhi inquinati.
Il ventitré barrato fa sempre la stessa strada, e dalla via stretta dove ho accumulato i miei giorni arriva fino alla giungla di palazzi in cui quotidianamente seppellisco il mio corpo per otto lunghe ore. Sempre lo stesso percorso, da anni. Non so perché, ma stamattina la cosa mi sconvolge. Vedo per la prima volta davanti ai miei occhi i binari arrugginiti sui quali a ritmo cadenzato scorre la mia vita, e adesso lo sento, così velato, il rumore soporifero dei miei minuti sprecati che scorrono.
Cambio improvvisamente la mia direzione, oggi. Vorrei poter uscire da questa giungla intrisa di delusione collettiva senza seguire alcun percorso, senza dover prendere l'ennesimo tram, vorrei potermi smaterializzare, poter scomporre le mie molecole intossicate e disperdere la mia disfatta nello smog di settembre.
E adesso, dopo anni di scrupoloso cammino in linea retta, volgo le mie ginocchia stanche verso una meta sconosciuta, torno a sentire il sapore delle direzioni contrarie, dell'abbandono di ogni sterile programma di vita o di semplice esistenza.
Mi ritrovo quasi all'improvviso in cima alla terrazza di un palazzo abbandonato, scrigno inviolabile, da sempre discreto nascondiglio dei miei pensieri. Non so quale combinazione di mezzi e passi in ordine sparso mi abbia portata fin qui. Si vede tutto, da quassù. Tutto quello che non avrei voluto vedere. Il mio sguardo abbraccia la mia gabbia, la mia non-casa, tutto quello che ormai fa parte del mio più recente passato. Decido, in un istante, di andarmene.
Nessuna traccia dietro di me, non lascerò nessuna impronta che potrebbe ricondurmi all'amarezza del mio anonimo passato. Scriverò una lettera di dimissioni, una di scuse e una fatta di lacrime sparse, e le spedirò quando sarò lontana da qui, in una stanza vuota, nel tepore della mia nuova vita.

Ottobre, mattina.
Ti scrivo in brutta copia, qui sul mio diario, dispiegherò i miei sentimenti ingarbugliati, strapperò la pagina, piangerò. Cercherò di razionalizzare, poi cederò, e ti dirò semplicemente che la mia nuova vita, qui in questo paese lontano, è, semplicemente, bella.

Non può funzionare. Non capirà. Eppure non posso scrivere nient'altro, non posso fingere. Ho cambiato direzione, non posso sottrarmi dal processo irreversibile di fuga dal piano inclinato dei miei giorni in serie. Ma so anche che questa mia conquista dovrò tenerla solo per me. Sono io che ho scelto di abbandonare tutto nel più vigliacco dei modi, sono io che ho rinnegato la stabilità del resto dei miei giorni, sono stata io a salire su un aereo senza portarmi dietro niente. Ora devo accettare la mancanza di ogni comprensione. Sarò l'unica a riuscire ad intravedere la felicità nel provvisorio, a sperare nel potere salvifico dell'incertezza, destinata alla perenne accusa di essere priva di qualunque radice.
Alzo il bavero della mia giacca rossa, guardo in su, esco nell'aria pungente del mio primo autunno con i raggi del sole. Non c'è stato bisogno di disegnare niente sul vetro della mia finestra, stavolta. Ho due lettere in mano: imbuco la prima senza alcuna remora, accarezzo la seconda mentre ricordi malinconici della mia infanzia mi attraversano la mente. Non ce ne sarà una terza.
Con le mani in tasca cammino spedita su queste strade sconosciute, cerco di respirarle tutte, di immaginarle, queste infinite incognite che mi hanno salvata. Sorrido. Sono troppe. Sono belle.

domenica 29 aprile 2012

Encre


Svegliami. Sfiora la punta rotonda del mio naso alle tre del mattino, quando neanche il buio può accusarti di eccessiva dolcezza. Parlami con suoni opachi, senza muovere le lenzuola. Scrivimi. Traccia le tue parole di inchiostro liquido sui fogli stropicciati di cui son fatta.

Lettere sparpagliate sulla scrivania, alcune ancora chiuse, altre strappate. Tutte, indistintamente, ingiallite dal tempo. Credeva di averle dimenticate, durante un trasloco frettoloso, nell'angolo di una cantina umida. E invece eccole lì, tutte, senza data né luogo, senza nessuna inutile firma.
Si scambiavano lettere. Era ridicolo, diceva lei. Era nostalgico, diceva lui.

Dici che siamo nostalgici. Eppure siamo qui, a vivere questa cosa insieme, questa, come dire, storia. Questa buffa unione di mente – corpo nel presente – passato. Abbiamo nostalgia di una cosa che ancora c'è.

Nostalgia. Di qualcosa che c'è. Lo scrive sulla sua piccola agenda blu. Eppure definirla, quella sensazione, era impossibile. Sfoglia le pagine a ritroso, tante frasi scritte di fretta, vaghe spiegazioni, impossibili tentativi di disperata concretizzazione. Siamo qualcosa.
Di quella volta in cui lei stava per parlare, ma poi non disse niente. Ché non amava dirle, certe cose.

Le parole sono belle così, scritte. Ma non tutte. Ce ne sono alcune che segui con lo sguardo, ne percorri le insenature con le dita. Altre le immagini e basta. Sennò è tutto così terribilmente privo vie di fuga.

Le lettere sono lì, tutte. Le legge, cerca di ricomporre le loro conversazioni lontane sulla base di quelle risposte scritte con una matita calcata fino a spezzarne la punta. Grigio sbavato da una mano sinistra che violenta strisciava sulla carta. E non ci riusciva, a stare dietro a quei pensieri irrimediabilmente ammassati, non ci riusciva mai.

Sono alla continua ricerca di prove che possano confutare l'importanza delle definizioni.

Era bella, quando scriveva. Non l'aveva mai vista scrivere. L'aveva vista inspirare forte il profumo del limone, o muovere le labbra mentre studiava i suoi appunti di giapponese, o stringere i pugni quando leggeva il giornale. Ma scrivere, non l'aveva vista mai. Eppure poteva scommetterci, che era bella.

sabato 14 aprile 2012

Ultima traccia


Respiro.
Chiusa nella mia stanza senza colori per l'ultima volta. Immobile fisso le crepe sul soffitto bianco sporco, segni di vite passate, tragico sottofondo, aspettative deluse e poi lasciate lì sull'intonaco umido, come tracce non troppo silenziose di innumerevoli, eterni fallimenti.
Ce n'è una, là in mezzo, che non riesco a smettere di fissare. Le ho dato il mio nome.
Oggi la mia fine è apparsa ai miei occhi sporchi di nero. Quello che mancava nella mia vita, quello che non c'è mai stato, l'avevo rimpiazzato così bene: calde coperte, pavimenti sporchi, bagni rotti, intenso dolore, poi lieve smarrimento, dilagante perdizione.
Non ho più niente adesso.
Un soffio di vento apre all'improvviso la finestra di legno scheggiato, chiudo gli occhi e la sento, nitida, violenta. La città.
È come se lo vedessi, quel ragazzo con i capelli chiari che nella penombra della sua minuscola stanza sfiora le corde di una chitarra come a voler accompagnare il movimento continuo del traffico. Note impalpabili ed eteree colano dalle sue mani ruvide senza disturbare, scendono sempre più giù, soffocate dalla pioggia che cade pesante sulle foglie morte del viale alberato. Lì in mezzo, sepolto fra fari accesi e un blando odore di sedili in pelle, un uomo fuma l'ultima sigaretta della giornata, suona il clacson. C'è una foto stropicciata sul cruscotto, e rose a buon mercato sul sedile del passeggero. La donna con l'impermeabile giallo cammina veloce mentre parla al telefono, i suoi tacchi troppo alti graffiano l'asfalto mentre attraversa la strada, distratta. Una frenata brusca, gomme che sfrecciano nella pioggia. Voci roche arrivano dal parco con le altalene rotte, le risate sono poche ma le sento, è come se mi chiamassero, in mezzo all'incessante stridore di tutto il resto.
Ascolto, non posso fare altro.
Ma mi sembra di vederli, tutti quegli occhi che cercano qualcosa, che frugano oltre ai loro momenti irrimediabilmente vuoti, oltre quella stasi: vogliono fuggire, vogliono smettere di ascoltare quel rumore che forza le serrature delle loro esistenze apparentemente incontaminate. Ero una di loro una volta. I miei ricordi sono vaghi ormai, pallide ombre sulla scenografia monocromatica di una mente ormai sterile. Eppure qualche volta l'immagine nitida dei miei passi su quelle stesse strade umide, il rumore attutito delle mie suole consumate, le voci che sbattono sulle pareti dei bar, si affacciano prepotenti nella confusione dei miei ultimi pensieri aggrovigliati.
Un altro colpo di vento fa sbattere la finestra. Sono di nuovo con me.
Ho avuto un amico, una volta. Cerco di ricordare il suo viso, e un ritratto sgualcito e monocromatico si dipinge nella mia mente, un po' sbavato, fatto di inchiostro liquido. Mi prendeva per mano. Eravamo gli unici a stare in casa, d'estate, a guardare le nostre vecchie videocassette. Non volevamo altro. Siamo cresciuti, sempre qui, insieme, cercavamo di evitare che la vita ci scivolasse accanto senza farsi sentire troppo. Non se ne accorse mai. Un giorno decisi di parlargliene. Mi ascoltò. Poi non lo rividi mai più. Non ho più voluto parlare con nessuno, dopo.
Adesso resto qui, chiusa nel mio silenzio, i motori sono spenti e le corde immobili. I miei passi si interrompono bruscamente, ora.
Addio, città.
Respiro.



Respiro.

martedì 13 marzo 2012

Città


Città. Città è una parola piena. È una parola che riempie ogni vuoto con il solo pensiero delle eventualità. Con la parvenza di infinite incognite che lievi si intrecciano. È lecito tremare al solo pensiero di quante cose potrebbero accadere, ma che in realtà non fanno altro che restare impigliate nella sfera del possibile, incollate come zanzare su una di quelle striscioline appiccicose, cercando un modo per liberarsi, oppure no, che è più comodo. Io le vedo, queste infinite possibilità, quando cammino sui ciottoli di una piazza su cui tante biciclette sgangherate saltellano. O quando sotto un portico sfioro il lembo di una giacca, per sbaglio, mentre vado di fretta. Ed è come se, vedendole, mi congedassi da ognuna di loro con un sorriso rassegnato, ché non le rivedrò più, io lo so. È la volontà di saper scegliere, quella che a volte non c'è, ma della quale non sempre si sente la mancanza.
Mancanza. Città è mancanza infinita nella costante presenza, città è quella luce spenta in un palazzo fatto di sole finestre illuminate. È presenza forse eccessiva o forse insufficiente.
Città. Scelta. Scelta provvisoria, scrigno di infinite decisioni, luogo di perdizione in cui gli indecisi che tutto amano e tutto temono, e che tutto vorrebbero vivere, si trovano assorti, in un'insopportabile mancanza (di nuovo) di contemplazione che vede ormai solo azione, frenetiche scelte, irrimediabili decisioni.
E io, prima di scegliere una strada, scatto una foto di quella che, a malincuore, scarto.

giovedì 23 febbraio 2012

Taci (e ascolta)


Camminavo da ore ormai. Il sole diventò una striscia di silenzio arancione, fu allora che mi accorsi di essere arrivata all'ingresso di quel piccolo bosco nel quale non avevo mai avuto il coraggio di addentrarmi. Non so perché, ma pensavo che oltrepassando la soglia di quel fitto groviglio di foglie mi sarei persa, per non tornare mai più. Forse perché un pomeriggio, davanti al camino, mio nonno, con quegli occhi azzurri e il sorriso di carta crespa mi raccontò la storia di un fantasma che abitava fra quelle fronde e che si divertiva a chiamare i visitatori di quel posto incantato, senza mai mostrarsi. D'altronde, era un fantasma. Avevo continuato a mangiare pistacchi, riflettendo su quella buffa storia. Poi non ci pensai più.
Camminavo da ore, e avevo voglia di continuare a farlo. Superai la prima fila di alberi. Il silenzio era immenso. Credo fosse la prima volta che mi capitava di sentirlo per davvero. Ma eterno, in sottofondo, il brusio dei miei pensieri mormorava incessante. Cercai di spegnerlo, mentre accarezzavo la corteccia ricoperta di muschio. Volevo stare con quella parte di me stessa che il più delle volte restava nascosta, sotto tutto il resto. Quella parte che nessuno conosce.
Camminavo da ore. In mezzo al verde scuro e alle lame di luce che sempre più invisibili mi sfioravano. Appoggiai la schiena a un tronco umido, mi sembrò di cadere addormentata. Poi la sentii, una voce sottile, che mi chiamava. Pronunciava le erre così lentamente. Sapeva il mio nome, lo sapeva da sempre, forse. Provai a darle un volto. Non ci riuscii. Immaginai due occhi azzurri però, chiarissimi, che leggeri mi sorridevano.